Difendiamo l’AFAM

 

È con sincera preoccupazione che assistiamo a ciò che sta accadendo all'interno delle istituzioni dell’AFAM - Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica, il comparto che riunisce le Accademie di Belle Arti ed i Conservatori, regolato dalla legge n. 508/99, contestualmente all’attacco generalizzato contro il pubblico impiego da parte del governo Renzi. Circa il destino di queste istituzioni in realtà pochi sono a conoscenza, visto l’esiguo numero di studenti, rispetto ad esempio all’ Università. Come programmato dalla Riforma della Pubblica Amministrazione Brunetta-Madìa, il comparto rischia l’accorpamento AFAM+Università e Scuola, in un processo d’omologazione in direzione di una drastica distruzione dei diritti sociali, delle specificità contrattuali, e della qualità dell’Alta Formazione Artistica. Tale progetto è perseguito dal governo tramite una duplice strategia intimidatoria, analoga al “metodo Marchionne”, che da una parte mira a disgregare la già fragile unità di un corpo docente molto eterogeneo, in aggregati d’interesse contrapposti, e dall’altra pretende di subordinare il rinnovo dei contratti ed il riconoscimento del valore di laurea dei titoli di studio rilasciati dalle istituzioni AFAM, allo smantellamento del comparto stesso, con tutte le conseguenze che ne deriveranno: estromissione dei sindacati, perdita della contrattazione collettiva, demansionamento, aumento del precariato. Attraverso un D.P.C.M. sulle equiparazioni per mobilità intercompartimentale, emanato il 17 Settembre, il personale docente Accademie e Conservatori è stato inglobato nel grande comparto della Scuola (un milione di addetti), comparto sul quale, oltre all'AFAM, andrebbe a confluire l'Università (quest’ultimo, si badi bene, solo personale non docente). Considerandolo un ricatto vero e proprio da parte di questo governo, fatto con l’uso della spada di Damocle, attualmente il nostro sindacato si schiera contro la soppressione del comparto AFAM. Non certo per feticci di natura giuridico-formale, ma a partire dalla constatazione che questo governo non stia mettendo sul piatto alcuna adeguata garanzia nei confronti di docenti e studenti, e che sia piuttosto orientato sulla via dei licenziamenti di massa e della precarizzazione coatta del presente e del futuro personale docente, e dell’aziendalizzazione totale dell’istruzione pubblica, fatta in nome della spending review, a detrimento, c’è da immaginarsi, anche della qualità stessa dell’insegnamento. Sosteniamo invece la completa attuazione della legge 508/99 nel rispetto delle prerogative dell’Alta Formazione Artistica, la messa ad ordinamento dei Bienni e della Ricerca, il pieno riconoscimento del valore di laurea dei rispettivi titoli di studio,  lo sblocco dei contratti nazionali, nonché l’immediato ritiro del provvedimento sulle equiparazioni per mobilità intercompartimentale, e l'avvio del confronto con le Organizzazioni Sindacali.

Riteniamo inoltre quanto mai urgenti la stabilizzazione dei precari, equiparazione dei diritti contrattuali, l’istituzione di nuovi concorsi per docenti e il ripristino della mobilità verticale tra le diverse fasce d’insegnamento.

 

19 novembre ’15

 

Il Coordinamento Nazionale SISA

Rispondere all’attacco alle Accademie di Belle Arti e ai Conservatori

di

Alberto Alghisi

Responsabile Nazionale SISA AFAM

 

Le scorse settimane qualche articolo sulla stampa, seguito da confuse voci di corridoio, sono bastati a seminare il panico presso le Accademie e i Conservatori. Il 17 settembre con la pubblicazione del  decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, relativo alla mobilità intercompartimentale dei dipendenti della Pubblica Amministrazione, nel quale i docenti delle Accademie vengono equiparati a professori di Scuola Media e Liceo, alcuni di questi riversavano il proprio allarmismo sugli studenti, invitandoli a protestare. «Ci hanno declassato!» ed improvvisamente le Accademie erano scese a livello di Scuole superiori, titoli di studio compresi.

Il tutto, in questi termini, è parso da subito assai parziale e inverosimile, facendo sorgere il dubbio che dietro la facciata si celassero ben altri propositi. Per rendersene conto sarebbe bastato legger tra le righe  le dichiarazioni rilasciate dal sottosegretario D’Onghia: «Afam e Scuola parlano la stessa lingua, ma non accorpiamoli». È pur vero che il comparto Afam (Alta Formazione Artistica e Musicale), istituito nel 1999 per dare dignità universitaria ad Accademie e Conservatori, sembra ormai giunto alla scadenza, in vista del ridimensionamento della Pubblica Amministrazione. Un  fatto che per le Accademie, determina l’aut-aut: stare nell’ Università o stare nella Scuola. Ed il decreto che riguarda i docenti sembra in apparenza, indicare proprio la seconda strada.

A questo punto però, viene da domandarsi quale interesse abbia un qualsiasi governo italiano a declassare le Accademie: un settore prestigioso, che mette in campo una progettualità ed un'innovazione di notevole portata, dimostrate dal riscontro a livello internazionale e dal continuo aumento degli studenti stranieri che chiedono di frequentarle.  Le ragioni avanzate in merito sono state le più farsesche: dal ceto politico incapace, all’autolesionismo italiota, ai ministri in preda alla follia. Naturalmente tali sciocchezze, testimoniano un’ impreparazione totale, unite al fatto ancor più grave, che chi sa le cose continui a non parlare e a non informare la gente. È verosimile che gli spin doctor del governo, non siano affatto dei pazzi, ma puntino a ben altro, più precisamente a forzare la mano e ad alzare la posta in gioco, sia nei confronti degli studenti che dei docenti. Questo è il nodo strategico centrale, attorno al quale dovrebbe ruotare ogni ragionamento. La strategia portata avanti dal governo è infatti molto più diabolica di ciò che si immagina. Da parte del ministero l’equiparazione del personale docente Afam a personale di Scuola superiore non è altro che un chiaro segnale del clima di intimidazione e dell’azzeramento dei diritti sociali e delle libertà sindacali, che si prepara in vista, non certo dell’ “umiliazione” delle Accademie, come frettolosamente creduto, ma proprio del loro ingresso nell’Università.

Dal momento che il comparto Afam racchiude in sé categorie di docenti molto -troppo- eterogenee, per titoli, carriere, professionalità (divisi in I fascia laureati, II fascia laureati, II fascia non laureati, sindacalizzati, non sindacalizzati, e naturalmente precari), coloro i quali da anni manifestano l’ambizione a diventare universitari, a patto di esserne formalmente titolati, si troveranno gioco-forza ad abbandonare il regime di contrattazione collettiva, pena l’ “esilio” nel comparto Scuola.

È risaputo che un buon numero di docenti in sevizio è pronto ad accettare di buon grado questi ricatti, talvolta nemmeno visti come tali, nella convinzione di trarne vantaggi economici e di implementare le proprie - talvolta già ampiamente riconosciute - carriere individuali, al contrario di tanti altri, che si troverebbero privi di ogni peso contrattuale e tutela lavorativa. Col risultato da parte del ministero di prendere due piccioni con una fava: estromettere il sindacato dalla contrattazione, e reclutare a bordo delle nuove Facoltà di Belle Arti soltanto i docenti che si dimostreranno più proni alle condizioni poste dal ministero, curatore fallimentare di un’asta al ribasso.

Se da una parte il governo ha garantito che le Accademie diventeranno Università, dall’altra vuole essere il solo a stabilirne a quali condizioni. In particolare cogliendo la palla al balzo per abbattere alcune “rigidità” ancora presenti nel comparto Afam ed assenti nel comparto universitario, come la già citata contrattazione sindacale collettiva, che resta uno strumento democratico a tutela dei diritti sociali dei lavoratori, e non certo un “privilegio” di natura “corporativa”, così come intende far passare un certo regime culturale composto da una gerarchia di veterani superpagati - con opportunisti al seguito -, che spaccia i propri interessi come interesse generale. Se poi alcuni diritti non sono appannaggio di tutti, logica vorrebbe che questi siano estesi anche a chi non li ha, compresi i docenti precari, i tutor, e quant’altro, e non livellati verso il basso, come il ministro Giannini ha affermato molto chiaramente di voler fare. Accettando le condizioni poste dal governo, viene da chiedersi quale sarà il prezzo da pagare per la trasformazione delle Accademie in Università.

Il quadro che si prospetta rischia di vedere studenti contro docenti, docenti di I fascia contro docenti di II fascia, laureati contro non laureati, sindacalizzati contro non sindacalizzati, in lotta tutti contro tutti, ognuno per salvare se stesso, con il ministero che -incredulo- si rallegra, potendo, per l’ennesima volta, fare tabula rasa delle proprie responsabilità, delle proprie omissioni, e dei propri disinvestimenti nei confronti delle Accademie, durati tutto un quindicennio, esacerbando orizzontalmente e non verticalmente gli annosi conflitti intestini al comparto Afam ed uscendone vincitore.

La questione circa la possibilità o meno di insegnare per gli attuali e futuri iscritti è strettamente connessa al grado di diritti, di garanzie contrattuali e retributive che verrà riservato a coloro che decideranno di intraprendere la docenza, una volta terminato il percorso formativo.

Analogamente a quanto sperimentato coi lavoratori della Fiat, il ministero sta applicando alle Accademie il “metodo Marchionne”: il mantenimento del posto di lavoro, a scapito degli attuali diritti. Il titolo di studio, a scapito dei futuri diritti, con prospettive lavorative quanto mai incerte.

Il ricatto tuttavia si spingerà oltre, perché anche la messa ad ordinamento dei bienni sperimentali e dei dottorati, prevista dalla legge 228/2012 (e mai applicata ai bienni), sarà subordinata all’acquiescenza preventiva - e senza interferenze - delle condizioni poste dal ministero, pena la loro mancata attivazione. Per farsi un idea di quali esse siano, basta riferirsi alla nuova legge finanziaria 2016, che ha disposto per Università e Scuola il taglio di oltre 600 milioni di euro per il triennio 2016/2018, determinato dai “patti di stabilità” con l’Unione Europea. Ragione per cui, accettare di non portare a compimento la riforma del comparto Afam, come previsto dalla legge 508/99 e consentirne la liquidazione dentro l’attuale assetto, equivale nei fatti alla consegna di una cambiale in bianco nelle mani del ministero, senza alcuna garanzia dalla controparte, come del resto già traspare dalla vaghezza delle dichiarazioni rilasciate dal sottosegretario D’Onghia, in materia di nuovi finanziamenti.

Tuttavia si può rompere questo ricatto. È possibile farlo rifiutando le alternative avanzate con arroganza da un governo che usa il bastone e la carota a seconda del soggetto a cui si rivolge. Indipendentemente dagli involucri legislativi e procedurali che si decideranno di adottare, gli studenti hanno tutto il diritto di vedere riconosciuto il valore di laurea dei titoli di studio triennale e magistrale, la messa a regime dei bienni e della ricerca, a prescindere dai conflitti in atto, con i quali essi non hanno nulla a che spartire.

Occorre l’abrogazione del decreto sulle equiparazioni per mobilità intercompartimentale, l’istituzione di nuovi concorsi per docenti, la stabilizzazione dei precari, il ripristino della mobilità verticale tra le diverse fasce (dal momento che da circa un quindicennio si procede, per sopperire ai pensionamenti, con incarichi a tempo determinato, in quanto la legge 508/99 collocò tutto il personale in ruolo ad esaurimento) e naturalmente il rinnovo dei contratti nazionali, fermi dal 2009.

A passare in secondo piano saranno i diritti lavorativi di quella parte pur meritevole di docenti che andrebbe inesorabilmente a perderli, in regimi contrattuali privi di tutele, e la difesa dei contenuti della formazione artistica, minacciati dal taglio dei fondi, dalla riduzione del personale, dalla precarizzazione e dall’abbattimento dei salari previsto per i nuovi docenti dal progetto di “Job Act” universitario, di cui saranno vittime nel prossimo futuro anche gli attuali studenti.

In antitesi a ciò è da considerarsi positiva la “titubanza” espressa dalle rappresentanze studentesche delle accademie italiane, che riflette una forma di resistenza nei confronti di una “modernizzazione passiva”, condotta dall’alto, che mistifica nella sostanza un attacco generalizzato verso la formazione, il pubblico impiego e verso i diritti sociali nel complesso.

L'appello che rivolgiamo agli studenti delle Accademie e alle loro rappresentanze, non pretende di essere l’ennesimo invito alla mobilitazione, piuttosto quello a comportarsi con un po’ di dignità, evitando di giocare il ruolo di strumenti di strategie altrui: essere usati cioè come arma propagandistica di un Potere, che se fino a ieri organizzava il consenso, oggi organizza il dissenso, orientandolo nella direzione voluta: un processo di aziendalizzazione totale dell’istruzione, senza mediazioni, con l’adozione di un dispotismo “meritocratico” basato su criteri puramente economicisti e manageriali, privo di qualsiasi scrupolo sociale, ma accettato da chi lo subisce in maniera irriflessiva.

Dentro quest’ottica va inteso anche il panico strisciante delle scorse settimane: alimentato ad arte e diffuso tra gli studenti e funzionale a far sì che il passaggio delle Accademie nel comparto universitario possa avvenire in stato d’emergenza, in modo plebiscitario, nel timore di perderci qualcosa, ma senza la pretesa di adeguate garanzie, senza discussioni e mediazioni tra le parti, e senza la possibilità d’intervenire nel merito dei pro e dei contro, presenti e futuri, che questo comporta.

Temiamo proprio che gli studenti e le rappresentanze, prima spaventati dagli annunci di “declassamento”, poi blanditi dall’offerta della soluzione al problema, non si siano accorti che proprio il governo stesse lavorando per suscitare in loro tali reazioni.

Se non si compie un'analisi seria dei soggetti e degli interessi in campo, si rischia il salto nel burrone.

Noi, con modestia e con tutti i nostri limiti, quest’analisi abbiamo cercato di farla, e ci auguriamo possa servire per ulteriori approfondimenti, e per articolare rivendicazioni nella giusta direzione, diversamente da quanto fatto finora.

                                                                                             

9 novembre ’15